Caporetto – Kobarid 1: cambiando punto di vista, insieme a Luigi Sardi
Ponte de Priula l’è un Piave streto – i ferma chi vien da Caporeto – Ponte de Priula l’è un Piave streto – i copa chi che non gà ‘l moscheto – Ponte de Priula l’è un Piave mosso – el sangue italian l’ha fato rosso – Ponte de Priula sopra le porte – i taca ‘l cartel co su la morte.
Questo è uno stralcio di una amarissima ballata, probabilmente destinata a sparire nella imminente retorica sulla tragedia di Caporetto che, assieme alle straordinarie pagine de La Domenica del Corriere dove i disegni di Achille Beltrame mostrano i soldati del Regio Esercito che si ritirano ma vincono le «barbare orde», sono le immagini meno note di quella disfatta di cento anni fa, che prende il nome, fissato in modo indelebile nella storia della Grande Guerra, dal piccolo villaggio sull’Isonzo. Un canto simile a “Ponte de Priula” dove si parla del Piave, dei «fusilai» sulle rive del fiume perchè nella ritirata avevano gettato il fucile, venne certamente udito a Como nella primavera del 1918 dalle bambine, e fra queste c’era mia madre, che andavano a raccogliere l’acqua ad una fontana vicina ad una rudimentale tendopoli dove erano state raccolte le donne fuggite dal Veneto nei giorni dell’avanzata austro germanica.
Donne disperate che nella fuga avevano perso tutto e sopravvivevano in una città , come tutte quelle del Regno, assediata dalla paura e dalla fame, che vedevano in quelle profughe nuove bocche da sfamare. Alcune di loro facevano le lavandaie e le sguattere nelle famiglie ricche e patriottiche che avevano lasciato Milano per rifugiarsi sulle sponde del lago, vicino al confine con la Svizzera; le altre, sorvegliate dai Carabinieri, passavano le giornate radunate vicino alla stazione della funicolare per Brunate e raccontavano la fuga disperata, la tragedia di quella invasione che «La Domenica», il settimanale con i grandi disegni a colori documentava, facendo credere che «i soldati nostri» pur indietreggiando, vincevano.
C’erano le leggende che i tedeschi, anzi gli Unni, tagliavano le mani ai bambini e sequestravano le donne più giovani per chiuderle nei bordelli. Come si vede su una pagina della Domenica e poichè le illustrazioni venivano “lette”anche dagli analfabeti, l’informazione e la propaganda avevano fatto il loro dovere.
Da mesi i giornali avevano accentuato quella poderosa campagna di mobilitazione degli italiani spinti nel maggio di due anni prima in quella guerra destinata ad essere l’ultimo, eroico quanto tragico capitolo del Risorgimento ma rivelatasi di conquista territoriale, quindi imperialista. Lo sforzo propagandistico era diventato enorme e gli eccezionali disegni di Beltrame sono la punta di diamante della informazione di Stato. Mentre a Caporetto il Regio Esercito si sgretola, migliaia di soldati muoiono combattendo, vengono feriti, presi prigionieri o, gettate le armi dopo aver ucciso gli ufficiali che vogliono resistere, si mescolano con i “borghesi” – sono solo donne, vecchi, bambini –  in fuga verso il Piave, Beltrame ci disegna i Bersaglieri della Quinta Brigata che moschetto in pugno corrono in avanti «difendendosi, contrattaccando instancabilmente, prendendo prigionieri al nemico».
L’altra immagine ha come titolo «Impeto di petti italiani contro l’invasore» e mostra, e l’immagine è davvero impressionante, una delle cariche della prima e seconda divisione di cavalleria «specie i reggimenti Genova e Novara eroicamente sacrificatisi». A guerra finita il tenente generale germanico Konrad Krafft von Dellmensingen racconterà la carica del Novara Cavalleria: «Sbucarono all’improvviso in un forsennato galoppo, le lance, le sciabole, le rivoltelle in pugno, il grido Savoia. I miei soldati del reparto d’assalto si dispersero in un baleno, scaricarono le mitragliatrici leggere e quando la carica si esaurì si videro due, tre, cinque italiani rizzarsi sulle staffe e uccidersi con un colpo alla testa».
Avevano capito che l’assalto, il loro coraggio, il loro eroismo erano stati inutili perché avanzata nemica continuava. E preferirono uccidersi.