Un libro al mese: Malati di sogni 4°
L'ultima guerra
Seduto al computer della biblioteca, l’Americano stava leggendo i report degli amici di Save our Future, l’organizzazione assieme alla quale da anni cercava di combattere la sua ultima guerra. Fin dai primi anni nel Nordovest aveva provato un’istintiva repulsione per la furia devastatrice con cui le foreste venivano aggredite in quella parte del mondo, senza nemmeno cercare una scusa. Non era quello ciò che gli era stato insegnato. E non era nemmeno ciò che aveva visto a Huschduwaschdu, il paradiso verde della valle di Kitlope, dove Wa’xaid gli aveva mostrato come si possa prendere tutto ciò che serve dalla foresta senza distruggerla, da tempo immemorabile. Case, mezzi di trasporto, utensili, abbigliamento e cibo: tutto veniva dalla foresta, persino l’ambiente adatto alla riproduzione dei salmoni, che ricambiavano nutrendo la foresta con le loro vite. La foresta e il mare, da sempre.
Un quarto di secolo era passato, eppure poteva rivivere quella notte d’estate, estate del 1990, come se tutto si stesse svolgendo in quel medesimo istante sotto i suoi occhi.
“Quando sono approdato a Kitlope, ieri mattina, – stava dicendo Cecil – ho notato immediatamente dei marcatori di rilevamento. Qualcosa che non avevo mai visto lì. Oh, questo è male – ho pensato. Se questi marcatori sono ciò che temo, quei nastri sono più affilati delle frecce. Taglieranno più a fondo dei coltelli. I marcatori indicavano il tracciato di una strada, ne sono certo, e proprio attraverso il posto dove sono nato! Ho visto cosa è successo ovunque, ho visto la distruzione lungo tutti i grandi tagli a raso, e ora hanno ottenuto l’approvazione dal governo per la loro licenza di disboscamento a Kitlope! Io non sono contro tutte le industrie, per partito preso. È il fatto che prendano le risorse dalla nostra terra sacra che mi preoccupa. E in quel modo!”
“Kitlope non è una valle, Wa’xaid, Kitlope è un simbolo ed è anche il vostro futuro – scandì Leo con parole come tuoni lontani – forse non solo il vostro! La salveremo, amico mio, non so come ma lo faremo.” (…)
Per questo, guidati da Cecil e da Gerald, gli Haisla erano insorti unanimi di fronte a motoseghe e mostri meccanici pronti a distruggere Kitlope. Forse il Creatore stesso ci aveva messo lo zampino e quella era ora la più grande foresta pluviale temperata ancora vergine del pianeta. Qualcosa di cui lo stesso Paese che ne aveva concessa la distruzione, poteva ora andare fiero davanti al mondo (…)
Ricordò i momenti magici quando una battaglia legale infinita si era risolta, contro ogni aspettativa, in una vittoria storica e il Northern Gateway, un oleodotto mostruoso, era stato stroncato prima che potesse avvelenare il Nordovest e il mondo. Scaramucce di una guerra sconfinata, ma persino l’oceano non era altro che la somma di innumerevoli gocce e se ciascuno avesse portato la propria…
I presagi dei vecchi
La mezzanotte era passata, ma quel libro non si lasciava proprio chiudere. Pose due ciocchi di faggio a rinvigorire le fiamme nel caminetto, che non tirava come al solito, quella sera; colpa del vento che rinforzava, quasi alimentandosi dell’oscurità di una notte senza luna. Le piante del giardino scricchiolavano inquiete. Aggrottò le sopracciglia percependo un fremito malevolo in quel soffio troppo caldo e troppo forte. Il buio lo colse di sorpresa, mentre girava pagina … Premendo l’interruttore per la seconda volta inutilmente, si rese conto che era mancata la corrente. “Accidenti al vento – mugugnò – che avrà combinato ora?” Meno male che c’era fuoco nel caminetto.
La casa pareva vibrare, scrollata da adunche mani rabbiose, mentre un boato simile a quello di una valanga sommergeva la notte. Un botto vicino lo fece sussultare, mentre dal caminetto scintille e braci esplodevano come un fuoco d’artificio spandendosi per la stanza. D’istinto spinse via la poltrona e sollevò il tappeto facendolo volare verso l’angolo più lontano, ma il legno del parquet aveva più di cento anni! Raggiunse a tentoni il bagno adiacente e cercò di riempire d’acqua una bacinella, poi ancora, e ancora, freneticamente, senza pensare, senza ascoltare il respiro affannoso né il cuore imbizzarrito. Acqua, acqua, acqua! Avanti e indietro, sbattendo contro gli stipiti delle porte, incalzato dallo scroscio dell’acqua dal rubinetto e dal fumo che invadeva la stanza e infiammava gli occhi, avanti e indietro. Niente più fumo, né affanno, né dolore…più in fretta! Più in fretta! Acqua, acqua, acqua! Si stropicciò più volte gli occhi arrossati lanciando attorno sguardi concitati prima di convincersi che ogni bagliore era spento, tutto era finito. Non pensò nemmeno a cercare una torcia o una candela. Raggiunse a tentoni la camera, trovò il letto e vi si lasciò cadere di peso, mentre fuori un silenzio surreale era subentrato al finimondo. (…)
Spalancò le imposte mentre l’alba si faceva lentamente strada tra una cortina di pioggia fina ma insistente, pioggia d’autunno. Nessuna luce. Nessun gorgheggio. Rami spezzati, tegole infrante e detriti di ogni genere. Sulla soglia esitò, investito da un ululare di motoseghe che si alzava da ogni direzione, come nemmeno il traffico di una città all’ora di punta. Si stropicciò gli occhi aggiustandosi meglio gli occhiali, ma nonostante ciò sull’ampio dosso che saliva verso la Stoanòlm tutto ciò che rimaneva da vedere dell’antica foresta del Kronwòld non erano che singoli fantasmi di larici spogli.
Lungo la via era tutto un andirivieni di facce stralunate, mani sporche e abiti da lavoro sbrindellati. Macerie e irriconoscibili pezzi di chissà che cosa sparsi ovunque, o ammucchiati negli angoli contro cui la tempesta si era intestardita inutilmente. Cavi elettrici e telefonici pendevano dalle pareti e dai tralicci, inutili. Le motoseghe del paese rombavano tutte assieme, inscenando un concerto assordante e un esercito di boscaioli improvvisati cercava di liberare strade e giardini dalle piante divelte. Sui tetti, alcuni dei quali sollevati e contorti tanto da non poter essere riparati ma solo rimossi e sostituiti, ci si affannava ad aggiustare e rattoppare meglio possibile. Si temeva che presto il cielo incombente e scuro avrebbe rovesciato tutta l’acqua che per mesi aveva gelosamente negata.
Lo avevano detto i vecchi che non era un buon segno tutto quel caldo e quel sole a fine ottobre. Ma i vecchi vedevano presagi di sventura ovunque.
Viaggio all'inferno
Leo si sentì mancare il fiato. Aveva sentito parlare dell’enorme palazzo avveniristico che da circa un decennio ospitava gli uffici giudiziari di Vancouver e la Corte Suprema della British Columbia. L’atrio immenso, con quel soffitto altissimo in tralicci metallici e vetro che faceva a fette il cielo, gli parve una gabbia, un anticipo di prigione più che la gigantesca finestra sull’infinito che probabilmente era nelle intenzioni del progettista. Aveva immaginato qualcosa del genere, lasciando Kitimat, ma gli era sembrato naturale presenziare all’ultima udienza di quel processo. In qualche modo si chiudeva una porta, si metteva la parola fine a un percorso di rinnovata sofferenza iniziato dieci anni prima, nel quale anche lui aveva avuto una parte.
Il viso ossuto e lo sguardo sprezzante del vecchio Plint erano ancora lì, vivi e repellenti nel ricordo. A quasi ottant’anni, quel mostro aveva sostenuto senza una piega un processo che avrebbe dovuto schiantarlo. Aveva guardato negli occhi coloro ai quali aveva distrutto l’infanzia, la vita intera. Aveva ammesso le violenze fisiche e sessuali perpetrate per vent’anni sui bambini della Scuola Residenziale Indiana di Port Alberni, senza ombra di pentimento né compassione.
Quello era stato uno dei primi grandi processi al mostruoso sistema, messo in piedi dal governo canadese e gestito dalle Chiese (sì, proprio loro!), destinato a cancellare anche il ricordo delle genti native canadesi. Leo era stato coinvolto grazie, o per colpa, di George Piccola Aquila, che in quell’inferno era stato scaraventato a nove anni. Era stato lui a chiedergli di accompagnarlo alla prima udienza alla quale 27 vittime si erano presentate vincendo la vergogna e il dolore di vite bruciate. Chiedevano giustizia, per sé e per i molti che non erano sopravvissuti abbastanza a lungo per essere lì quel giorno.
“Avevo sei anni e mio nonno impiegò poco a capire che in quella scuola qualcosa non andava. Ora so che allora tutti cercavano di nascondere i propri figli, perché sapevano che li avrebbero perduti per sempre. Mi nascosero in un piccolo campo di caccia e raccolta, su oltre il grande lago Kalum, lungo il Mayo Creek. I bianchi non andavano lassù. Avevo nove anni e stavamo giocando nel bosco. Da uno spuntone roccioso alto sul fiume, vedemmo che tre uomini stavano discutendo con i miei. I bambini sono curiosi a quell’età. Per capire cosa stesse succedendo scendemmo sulla riva. Non avevamo visto altre due persone, che ci comparvero improvvisamente alle spalle. Ci presero tutti e quattro per portarci in una scuola residenziale.
Fui gettato dritto dentro l’inferno … un bambino di nove anni che non capiva una parola di inglese. Per fortuna incontrai subito Ben. Lui è Nisga’a, parliamo quasi la stessa lingua. Se non ci fossimo incontrati chissà se saremmo sopravvissuti. C’erano cartelli dappertutto in quel posto – aveva proseguito George – e quello con le lettere più grandi, scritte in maiuscolo, diceva “YOU ARE NOT TO TALK YOUR MOTHER TONGUE – Non dovete parlare la vostra lingua madre” . Io e Ben non sapevamo l’inglese, e men che meno leggerlo ovviamente, e parlavamo nella nostra lingua. Arrivò un uomo con un fischietto in bocca, fischiando come un ossesso. Prese me e il mio amico per un braccio e, continuando a fischiare, ci trascinò in una grande stanza. Centotrentasette ragazzi, tutta la scuola, furono riuniti attorno a noi. Ci ordinarono di spogliarci, nudi. Lo facemmo. Ci legarono a un tavolo e, dopo aver fatto a tutti un breve discorso, del quale naturalmente noi due capimmo solo il tono adirato, cominciarono a frustarci con una cinghia di cuoio nero. Volevano che fossimo d’esempio. Facevano lo stesso con ogni bambino che parlava una lingua diversa (… )
Ben ed io non ci facemmo mai più sorprendere, ma non smettemmo di parlare la nostra lingua madre. Fu in quel momento che iniziai a sfidare l’autorità. Non fu un bene per la mia vita. Un’altra eredità deleteria di quelle scuole maledette.”
Per un caso fortuito, ormai anziano, Leo torna alla vecchia casa di famiglia, nel Sudtirolo che ha lasciato a 17 anni. Ha trascorso l’intera vita lontano, fra le immense foreste del Canada, e per tutti ormai è l’Americano. Nel racconto di Max Unterrichter si mescolano gli anni della brutalità fascista e delle bombe in Sudtirolo con la ferocia coloniale e le Scuole Residenziali Indiane del Nuovo Mondo. Genocidi perseguiti cinicamente e esseri umani che vorrebbero solo vivere a modo loro, con rispetto e amore.
Il nuovo libro di Max Unterrichter – pubblicato dalla casa editrice Effekt! in lingua tedesca e da Youcanprint in lingua italiana e inglese – è un viaggio fra passato e presente, fra luoghi di confine e popoli diversi – i Nativi del Canada e i Sudtirolesi – ma accumunati dalle ingiustizie subite, dalla fierezza e unicità che li distingue da tutti coloro che li circondano, tra memoria e ricerca di un futuro che pare grigio di dubbi difficili da sciogliere.
“Malati di Sogni” non è un romanzo e nemmeno un saggio. E un libro vero, duro, per certi versi difficile da digerire, ma che vale la pena leggere, una prima volta tutto di un fiato, e poi un’altra ancora più lentamente, andando a fondo di ogni pagina, di ogni parola.
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