L’ Epifania in letteratura
Il termine Epifania (dal greco ἐπιϕάνεια, «manifestazione») venne usato per la prima volta dai Greci: lo si utilizzava in senso religioso per indicare un segno – ad esempio un sogno, come nel caso del dio guaritore Asclepio, o una visione – tramite il quale una divinità poteva manifestarsi. Con la nascita del cristianesimo il termine è stato dotato di un nuovo uso, ovvero quello di indicare la festa che ricorda tutte le manifestazioni divine di Gesù, in particolar modo l’adorazione dei Magi; quasi sicuramente, questa festa ha origine orientale e affonda le sue radici non prima del terzo secolo. Il primo che introdusse il termine Epifania in letteratura fu lo scrittore irlandese James Joyce, l’autore noto soprattutto per aver scritto l’Ulisse e Finnegans Wake, conosciuto in tutto il mondo come il pioniere della tecnica di scrittura nota come stream of consciousness (ovvero lo scrivere i pensieri così come vengono pensati, aiutando il lettore a comprendere meglio i personaggi e andando così a toccare il campo della psicanalisi).
L’ Epifania è quasi una naturale conseguenza della tecnica dello stream of consciousness che Joyce introdusse in una delle sue opere maggiori, Dubliners in cui l’autore racconta Dublino, la sua città natale, e il suo rapporto con essa – tramite alcune figure conosciute nella vita reale – denunciandone allo stesso tempo la paralisi morale e l’ostilità al cambiamento, che porteranno l’autore ad allontanarsene. Il termine Epifania in letteratura – secondo Joyce – ritorna dunque al suo significato originale di manifestazione: si tratta di una rivelazione spirituale improvvisa, un’illuminazione che può essere causata da qualsiasi cosa che sembra in apparenza banale ma che nasconde un significato inaspettato quanto profondo, e collega due cose solitamente distanti tra loro (un elemento materiale, molto spesso un semplice e piccolo dettaglio, viene collegato ad un elemento spirituale). L’epifania, originariamente intrisa di senso divino, assume in Joyce la natura eretica della rappresentazione di momenti qualunque, che, pur essendo tali, assumono una loro singolarità ed evidenza.
Ma come non ricordare e citare il grande scrittore americano, definito il padre della Beat Generation, Jack Kerouac noto per il suo epico romanzo On The Road? In questa circostanza si ricorda per la sua “Epifania”, “Satori a Parigi”: quell’illuminazione attesa tutta la vita. Tutta la sua vita è stata una illusione, un qualcosa che si insegue e mai si raggiunge. “Cerco Dio, voglio che Dio mi mostri il suo volto”, ripeteva e non per dimostrare la sua esistenza, ma come sollievo dalla propria angoscia. “Satori a Parigi” è l’esposizione di una delle tante visioni di una vita vissuta rincorrendo ogni componente della quotidianità.
Il “Satori” per la cultura buddista è l’illuminazione, la manifestazione visionaria che ci assale in un determinato momento della vita. È la rivelazione. In Kerouac Dublino diventa Saint-Brieuc, nella Bretagna, il luogo dei suoi antenati dove sente di andare alla ricerca delle proprie origini francesi. Anche se tutto apparirà inutile, lo scrittore ci offre con totale spontaneità quella parola che dall’interno piomba senza filtri sulla carta. L’epifania è compiuta.