von mas 02.11.2024 18:30 Uhr

Un libro al mese: Malati di sogni 1°

Il nuovo libro di Max Unterrichter, un romanzo sulla vita a cavallo fra Sudtirolo e Canada: due mondi diversissimi fra loro,  in qualche modo accumunati dalla violenza della storia ma anche dalla volontà di vivere secondo la propria cultura, le proprie tradizioni, i propri principi. Oggi la prima parte: ” … La maggior parte di coloro che incontrava non era ancora nata quando lui era partito. Solo un vecchio, appoggiato al suo bastone, sembrò osservarlo con un qualche interesse, forse l’ombra di un dubbio ad aggrottargli le sopracciglia…”

Jet lag della memoria

Fermò il SUV davanti al cancello, sfondato e rimesso in piedi alla meglio. Un cartello giallo avvisava “Divieto d’accesso Eintritt verboten”. Ecco fatto, pure un maledetto cancello da togliere di mezzo! Ma perché diavolo mi sono imbarcato in questa rogna assurda? Forse c’era davvero un grano di pazzia nel suo codice genetico. Come altro potevano aver definito in paese la sua decisione di pagare un ragazzino, ogni mese per quindici anni, perché tenesse in ordine il giardino, mentre le chiavi della casa se l’era portate oltre oceano? “Quel matto di Americano!” avevano sicuramente commentato, ma poi le cose si erano sistemate da sole, come sempre accade, scivolate nell’oblio della polvere.

Faceva uno strano effetto quella semplice casa dalle forme tardo ottocentesche sprangata, ripiegata su sé stessa,
addormentata nel fiorito, ordinato, quasi surreale rigoglio del grande giardino. Colpita dalla luminosità rossastra del tramonto, la casa sembrava sorridergli mentre si avvicinava al portone. Il legno, ingrigito, mostrava piccole crepe. Anche lui ha le sue rughe, pensò. Infilò la chiave nella toppa, ma si ritrasse esitante. Sulla panca addossata al muro, un passo più in là, sua madre, gli occhi chiusi su un lieve sorriso, si lasciava accarezzare dal sole. Quanto aveva amato il sole, sua madre! Era stata lei stessa un brandello di sole. Chissà se proprio lì si era assopita, scaldata dal suo antico amante, in quel meriggio di febbraio, con la neve nuova a piegare i rami e un cielo cobalto. Aveva voluto essere lei stessa a dirglielo, accertarsi che fosse un sorriso ad accompagnarla nell’ultimo viaggio, non una lacrima. Una delle sue solite buste di carta pergamenata, ma questa volta conteneva solo un biglietto e una sola frase: “Quando leggerai, io ti starò guardando di lassù: sorridimi e anch’io ti sorriderò, con l’amore di sempre.”  Non aveva potuto far altro che sorriderle, per un’ultima volta obbedire. Che lei quella busta l’avesse preparata da anni, pronta per essere spedita, e consegnata a Maria Gruber, la sua compagna di passeggiate, era solo l’ennesimo segno del suo luminoso modo di amare. Non si era sentito mai in colpa per non averla accompagnata nel suo ultimo, breve percorso fino al cimitero. Non c’è colpa nell’amore, né rimorso. Se la sarebbe portata volentieri al di là dell’oceano, ma lei aveva sempre scosso appena il capo, dolcemente. Non si può spostare un vecchio rosaio dal muro accanto al quale è cresciuto, era la sua risposta. Lo sguardo sereno. Se Dio vuole, sarai tu a tornare, un giorno. Sì, lui era tornato, ma troppo, troppo tardi.  (…)

Si guardò attorno con la sensazione che tra quelle mura il tempo si fosse fermato. Nei suoi lunghi anni solitari, sua madre non aveva cambiato posto nemmeno a un soprammobile. La vide scivolare dietro una porta socchiusa. La seguì. Il suo sorriso schivo lo attendeva appeso alla parete del salottino, esattamente dove lo aveva lasciato mezzo secolo prima, rubato al tempo e alla polvere dalle delicate tonalità della tempera. Giovaneper sempre. Un destino vigliacco di solitudine quello di sua madre, ma lui se ne sarebbe reso conto solo molti anni più tardi. Lei la propria madre non l’aveva mai conosciuta, il suo primo vagito confuso ll’ultimo respiro di lei. Un marito rimasto per sempre nel ricordo col suo viso da ragazzo imbronciato per le ingiustizie del mondo e rapito da un’insensata follia. Un figlio volato via sulle ali dei propri sogni appena svezzato. Ma anche il destino sapeva volare

 

Kitimat, BC

Era stato in un mattino livido di pioggia mista a nevischio, uno come tanti nel Nordovest, che Leo Wolf, “the Timberwolf”, il lupo della foresta, come tutti lo chiamavano a Kitimat-BC, si era infilato in tasca il passaporto, pochi spiccioli e la carta di credito. Aveva chiuso con cura la porta del ripostiglio del giardino e quella di casa e si era avviato a capo chino, senza voltarsi indietro. Sulle spalle lo stesso zaino che aveva attraversato con lui l’oceano mezzo secolo prima. Pochi istanti sulla soglia di Josh, il fratello regalatogli dal suo strano destino. Le chiavi lasciate come per ogni breve vacanza.  Tornerai, vero? Che razza di domanda era? Certo!

Era un uggioso martedì, come quello in cui il battello da Vancouver era approdato a Kitimat, sbarcando centinaia di occhi giovani come i suoi, carichi di meraviglia e di speranza. Martedì 8 ottobre 1957. Non sapeva nemmeno che esistesse quel posto, fino a un paio di settimane prima. Il volantino gli era capitato in mano per caso, lo aveva incuriosito per i caratteri cubitali in neretto e la figura di un orso. Aveva faticato qualche minuto, con l’aiuto di quanto aveva udito e del vocabolario che si era portato da casa, per decifrarlo e un istante era bastato per decidere: quello era ciò che i suoi sogni di bambino gli avevano indicato! Ripartire dopo un solo mese, lasciando un lavoro appena trovato, il suo primo da uomo. Ripartire verso il nulla. Si può fare a diciassette anni. 

Sbarcando sul piccolo molo di legno, che ancora odorava di bosco, aveva faticato a fare i primi passi, ubriaco del rollio della nave, ammutolito dallo spettacolo dell’amplesso tra l’oceano e la foresta. Foresta scura, compatta, a perdita d’occhio, le cime, già imbiancate dalla prima neve, velate da una nebbiolina azzurra. E sulla riva, al confine tra i due mondi, lei “The Smelter”, la fonderia, la madre di quella città e di quel suo ultimo viaggio, con la sua mole immensa e grigia, diversa da qualsiasi cosa avesse mai vista. Non aveva la più pallida idea di che razza di lavoro lo potesse attendere là dentro, ma non vedeva l’ora di iniziare. Avrebbe voluto che fosse già domani.

(… )

Inspirò rumorosamente e l’aria frizzante di maggiociondolo e tiglio lo riportò con i piedi per terra, di nuovo nel secolo giusto. Si avviò verso il centro, verso il piacere dimenticato di un caffè. A passo lento, da turista, andava osservando la gente con curiosità. Quasi tutti paesani dall’aspetto, per i Fremden, i forestieri, la stagione non era ancora matura, eppure non uno di quei volti risvegliava sentimenti né ricordi. Colse qualche sguardo curioso: era dunque reciproca la sensazione. Certo, la maggior parte di coloro che incontrava non era ancora nata quando lui era partito e altri erano troppo piccoli per averne ricordo. Solo un vecchio, appoggiato al suo bastone, sembrò osservarlo con un qualche interesse, forse l’ombra di un dubbio ad aggrottargli le sopracciglia. In quel momento si rese conto che i volti, sbiaditi, che popolavano i suoi ricordi non avrebbe dovuto cercarli lì, per strada. La maggior parte ormai passeggiava in silenzio con sua madre, al crepuscolo, al di là della chiesa.

Immagini dal passato

Un vuoto alla bocca dello stomaco era la sensazione che lo accompagnava da giorni ormai. Un vuoto che le stanze, i mobili, gli odori che facevano da sfondo alla sua infanzia non riuscivano a colmare. Si rese conto che mezzo secolo di assenza avevano reso i suoi occhi simili a quelli di un turista. Provava il desiderio di percorrere lentamente, con attenzione curiosa, quel paese che era sembrato così privo di interesse ai suoi occhi di ragazzo. Ritrovare angoli e scorci custoditi dalla memoria, o forse stupirsi di non ritrovarli affatto, perché scomparsi o per uno di quegli scherzi con cui il ricordo a volte modifica e trasfigura persino le pietre.

Da molto prima che lui nascesse gente era venuta da paesi lontani per ammirare la sua terra e i suoi monti, le Dolomiti dalle mille leggende, mentre lui sognava altri continenti. Ricordava ancora quando, a scuola, aveva affermato, scimmiottando un qualche poeta antico, che a nessuna persona di buon senso sarebbe saltato in mente di andare a vivere in quella valle insulsa.Colpa di tutti quei romanzi di avventure, in paesi che forse nemmeno esistono, con cui ti riempi la testa! – lo aveva ammonito un insegnante, del quale ricordava il viso severo ma non il nome – È qui la tua terra, quella che ti ha partorito e che devi amare: le chimere fanno solo danni!”  Chissà perché quell’uomo era convinto che i sogni oscurassero l’amore per la Heimat? Che ne sapeva lui che non era mai arrivato più lontano di Innsbruck, forse nemmeno coi sogni? Ma ora ogni casa, ogni veduta, ogni cambiamento nella luce del giorno gli rivelava cose e sensazioni che non ricordava di aver visto né provato prima. O magari non le aveva “sapute” vedere?  Che lui fosse cambiato era ovvio, ma anche il paese era cambiato, e con esso i volti che lo popolavano. Forse era quel fossato tra un “prima” e un “ora” che andava colmato, ma come? Non certo rovistando tra i cassetti e la polvere di casa, dove il tempo pareva essersi fermato. Nemmeno il silenzio del camposanto era stato di grande aiuto.

Ricordò di aver notato una scritta di fronte al bar sulla piazza: “Gemeindebibliothek – Biblioteca comunale”. Non esisteva ai suoi tempi, ma forse era proprio quello il luogo in cui cercare il suo cordone ombelicale. Lo avevano abituato il nonno e il maestro Agostini a cercare tra le pagine, nel profumo inconfondibile della carta, le risposte
che la vita sembrava negare. Non era del paese il maestro Sergio Agostini, era venuto  dal “Welschtirol”, il Tirolo di lingua italiana che ora si chiamava Trentino. Tutti lo chiamavano “der Walsche”, l’italiano. Col tempo però la diffidenza era scomparsa, lui era entrato nei cuori della gente e loro nel suo.  Si era persino sposato e non con una qualunque. Prima di conoscerlo, la Hermine del Brunnerhof girava con un coltello da caccia nascosto nelle pieghe del Dirndl perché “wenn òan walscher mi straft, schnaid i ihm di kehle duarch! Se un italiano mi sfiora lo sgozzo!”, ripeteva facendosi rossa per la rabbia. Ma quel walsche aveva visto la casa di suo padre distrutta dalle bombe italiane mentre lui, poco più che bambino, cercava di difenderla dentro una trincea a nemmeno due ore di cammino… e parlava bene il tedesco. Lui non somigliava in niente ai vigliacchi in camicia nera che, grazie ad un trattato di pace oltraggioso, avevano usurpato la sua terra, vietato l’uso della lingua tirolese e reso invalido il fratello sulla via per Bolzano.

Non era stato per caso che lo aveva incontrato in un piovoso mattino di ottobre. “Buon giorno signor maestro.” Una coppia di passanti sbarrò gli occhi interdetta sentendola parlare in italiano. “Guatn moargn froilain Hermine! Òbr, wòs mòchn’s oune regnschirm? Bittschien, nehmen’s moans! Buon giorno signorina Hermine! Ma cosa fa senza ombrello? Prego, prenda il mio!” “No, grazie maestro, si no lei si bagna. No importa.” “Na, Taifl, koan tiroler hòt òngst vor a pissl wòsser! No, diavolo, un tirolese non ha paura di due gocce d’acqua!” replicò mettendole l’ombrello in mano. Hermine lo fissò con aria di sfida: “Ma lei non è…” “Hoast es nit mear Welsch – Tirol ‘s lònt wouvon i khim? Non si chiama più Tirolo – italiano la terra da cui vengo?” la interruppe lui con un sorriso, accentuando bene la parola Tirol. “No, quella parola è proibita! Adesso è Trentino.” La voce di Hermine aveva ora un tono diverso, un’ombra d’incertezza. “Na, mir isch wurst wòs si erlaubn. Trentino oudr Venezia Tridentina, sell isch immer insr hoaliges lònt Tirol, in daitscher, walscher oudr ladinischer spròch! Wiidrschaun! Non me ne frega niente di cosa è permesso. Trentino o Venezia Tridentina, quello è sempre il nostro Tirolo, in tedesco, italiano o ladino! Arrivederci!” e già correva verso la scuola strizzandole l’occhio. Non ci aveva messo molto a decidere, Hermine. Non se n’era mai pentita.

Quelle stesse voci però erano giunte anche dove non avrebbero dovuto e, da un giorno all’altro, Sergio Agostini non era più maestro e non aveva più uno stipendio. Poi era stato massacrato da quattro sconosciuti, che lo avevano abbandonato nella neve credendolo morto. Era costato due mesi di cure e preghiere notturne, alla Hermine, rimetterlo in piedi. A lui erano bastati pochi giorni per allestire in una delle cantine del Brunnerhof la sua Katakombenschule, la scuola delle catacombe, come altri erano stati costretti a fare in molti paesi del Sudtirolo. Quei bambini erano i suoi figli, non li avrebbe mai abbandonati, perché sapeva bene che un popolo privato della propria lingua è un popolo morto. Come fosse sempre sfuggito a perquisizioni e appostamenti nessuno l’aveva capito e a Natale del ’46, regalandogli il terzo figlio, la sua Hermine si era portata il segreto nella tomba. Il posto di maestro gli era stato riassegnato quattro mesi prima.

Nonostante fossero solo le otto in punto del mattino, il portone era già aperto. Sulla soglia si soffermò  a leggere la targa di ottone:”Gemeindebibliothek Sergio Agostini”. Sorrise tra sé ripensando a quell’uomo: la gratitudine della gente gli era sopravvissuta.  La bibliotecaria parve sorpresa dalla sua richiesta di quanto indietro nel tempo  andassero le annate disponibili del Dolomiten, il quotidiano locale. “Gli ultimi sessanta?” rispose incerto alla domanda quale anno lo interessasse in particolare. “Qui abbiamo le annate dal 1972 al 2010, quelle più recenti sono su supporto informatico, più indietro purtroppo non andiamo. La biblioteca non esisteva nemmeno prima.” L’Americano non aveva idea di che cosa stesse cercando, magari una sorta di filo rosso che congiungesse i suoi ricordi col presente, permettendogli di capire e sentirsi un po’ meno spaesato.

Per un caso fortuito, ormai anziano, Leo torna alla vecchia casa di famiglia, nel Sudtirolo che ha lasciato a 17 anni.  Ha trascorso l’intera vita lontano, fra le immense foreste del Canada, e per tutti ormai è l’Americano.  Nel racconto di Max Unterrichter si mescolano gli anni della brutalità fascista e delle bombe in Sudtirolo con la ferocia coloniale e le Scuole Residenziali Indiane del Nuovo Mondo. Genocidi perseguiti cinicamente e esseri umani che vorrebbero solo vivere a modo loro, con rispetto e amore.

Il nuovo libro di Max Unterrichter – pubblicato dalla casa editrice Effekt! sia in lingua italiana che in lingua tedesca –  è un viaggio fra passato e presente, fra luoghi di confine e popoli diversi – i Nativi del Canada e i Sudtirolesi – ma accumunati dalle ingiustizie subite, dalla fierezza e unicità che li distingue da tutti coloro che li circondano, tra memoria e ricerca di un futuro che pare grigio di dubbi difficili da sciogliere.

“Malati di Sogni” non è un romanzo e nemmeno un saggio. E un libro vero, duro, per certi versi difficile da digerire, ma che vale la pena leggere, una prima volta tutto di un fiato, e poi un’altra ancora più lentamente, andando a fondo di ogni pagina, di ogni parola.

Chi non trovasse il volume in libreria, può rivolgersi alla casa editrice Effekt!  (0471 813 482 –  info@effekt.it ), oppure direttamente all’autore (munterr@tin.it )

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