von mas 21.09.2024 18:30 Uhr

Un libro al mese: Il vecchio dottore 3°

“Egli detestava questo conflitto e ogni conflitto. Non riusciva a capire come proprio questo suo figlio volesse andare in guerra a sparare contro altri uomini … Quelli che considerava nemici, erano in realtà uomini. Uomini e popoli per i quali desiderava la vita e non la morte.” – La vicenda di Josef Anton Raffeiner, il vecchio dottore, che l’autore del libro rievoca attraverso la documentazione rinvenuta in famiglia, è un viaggio iniziato a Trento, proseguito a Brentonico e poi conclusosi a Petersberg, fra Aldein e Deutschnofen, dove il protagonista esercitò come medico condotto. Un itinerario attraverso la storia del Tirolo da metà Ottocento alla fine della Prima guerra mondiale, quando i vecchi equilibri si dissolsero e nulla fu più come prima.

Già da diversi anni gli Stati dell’Europa si erano impegnati in una logorante corsa agli armamenti. La Francia e soprattutto l’Inghilterra osservavano con sospetto il riarmo della Germania e la crescita della sua flotta da guerra, che diventava di giorno in giorno più potente. A ciò si aggiungeva il fatto che già da decenni non erano state combattute guerre importanti, cosicché gli ufficiali degli Stati Maggiori avevano potuto provare i loro piani di battaglia solo durante le manovre o sulla carta. Il loro mestiere, però, era quello di fare la guerra e non di giocare alla guerra.

Per la maggior parte degli uomini quella fu comunque un’epoca felice, un’età dell’oro. In genere gli uomini stavano bene, la cultura era tenuta in considerazione, molta gente parlava due lingue e svariati individui anche più di due. Si faceva musica in quasi ogni casa ed era del tutto assente quella agitazione febbrile che al giorno d’oggi ci distrugge. C’era ancora tempo di parlare insieme, di giocare, di cantare e di passeggiare. Lo Stato non si insinuava ancora in tutti gli angoli della vita umana e del vivere comune. La vita era più libera.

I colpi di Sarajevo, che il 28 giugno 1914 assassinarono l’erede al trono austriaco Francesco Ferdinando e la moglie Sofia Chotek, allontanarono brutalmente gli uomini da questo idillio 

(…)

I generali avevano preso il sopravvento sui governi e sulle teste coronate. Truppe tedesche marciarono, malgrado la loro neutralità, attraverso il Belgio e il Lussemburgo per poter accerchiare l’esercito francese con un movimento
a tenaglia. Ciò provocò l’intervento dell’Inghilterra, la quale dichiarò guerra alla Germania. Venuto a conoscenza di questa dichiarazione, l’imperatore Francesco Giuseppe sconsolato esclamò: «Ora tutto è perduto».

La maggior parte degli uomini si gettò con entusiasmo nella guerra. Pochi avevano una chiara visione delle cose come il Kaiser. Fra questi c’era anche il deputato tirolese Josef Kienzl della Sarntal, il quale si alzò in piedi nel Reichstag ed esclamò: «Noi perderemo questa guerra; nessuna guerra è mai stata vinta contro l’Inghilterra». Non ricevette alcun applauso e solo l’immunità parlamentare lo salvò dall’essere incriminato. Persino Josef Anton esprimeva le medesime idee ai propri conoscenti, e solo la stima di cui godeva nell’altipiano del Regglberg gli evitò una denuncia e le conseguenze penali.

Non sono riuscito a sapere nulla circa la sua reazione alla morte dell’arciduca Francesco Ferdinando, che la voce del popolo, come sappiamo, riteneva essere un suo fratellastro

(…)

Peppi aveva terminato gli studi liceali con la maturità (2 luglio 1914). Nel settembre successivo, a Bressanone, venne sottoposto alla visita di leva e dichiarato abile. Due giorni dopo fu chiamato alle armi. A Linz entrò in una caserma dell’artiglieria da campagna in qualità di «volontario a ferma annuale», vale a dire come allievo tenente della riserva  (…)  Nel marzo del 1915 Josef Anton  venne a sapere che anche Karl avrebbe dovuto sottoporsi alla visita di leva. Cominciò così la sua personale battaglia per riuscire a esonerare almeno questo figlio dal servizio militare, il che voleva dire evitargli di andare in guerra (…) Josef Anton voleva aiutare l’umanità, desiderava curare, se possibile, e confortare e donare serenità quando non poteva più garantire la salute ed essere di aiuto. Egli detestava questo conflitto e ogni conflitto. Non riusciva a capire come proprio questo suo figlio volesse andare in guerra a sparare contro altri uomini (…) Il padre voleva far comprendere al figlio che quelli che considerava nemici, erano in realtà uomini. Uomini e popoli per i quali desiderava la vita e non la morte

(…)

Nel marzo del 1916 Karl partì con la sua unità per il fronte italiano, situato tra l’altopiano di Folgaria e il territorio dei Sette Comuni. Il nemico veniva così affrontato in una logorante guerra di posizione di montagna. Nell’estate l’unità venne sciolta e spedita a Cles, capoluogo della val di Non, per essere ricostituita con nuovi rimpiazzi. Qui egli conobbe Ida Dal Rì dagli occhi neri, una  giovane ragazza, per la quale Karl perse la testa  (…) Alcuni giorni dopo, la sua unità di Kaiserjäger ricevette l’ordine di partire. Si tornava al fronte. La sera del 27 luglio, al suono della banda militare, Karl con il suo reparto lasciava quel luogo divenutogli tanto caro. Le strade di Cles erano orlate di gente che salutava i soldati. Karl si guardava continuamente intorno sperando di scorgere Ida da qualche parte, ma di lei non v’era traccia alcuna. Dopo che la truppa aveva abbandonato il paese e marciato per un tratto in aperta campagna, la ragazza comparve improvvisamente ai bordi della strada in compagnia di un’amica. Karl chiese il permesso di poter lasciare per un momento la formazione in marcia, corse da lei, la circondò con le braccia, la baciò e la tenne abbracciata godendosi quel suo breve istante di felicità d’amore fino a quando non dovette staccarsi e prendere commiato dalle due fanciulle. Un ultimo abbraccio, un ultimo bacio e poi via di corsa per raggiungere il reparto.

Io non so se quella sera i due innamorati si siano visti per un’ultima volta oppure se vi sia stato in seguito un altro incontro. Le molte lettere che Ida scrisse a Karl, che prendevano spunto da quelle ricevute da lui, non fanno alcuna luce in proposito. Sono però menzionati diversi tentativi per darsi appuntamento, tuttavia tutti naufragati per ragioni legate alla guerra  … Il lettore attento riuscirà comunque a vedere risplendere tra le righe del diario di Karl la figura di Ida, che infondeva continuamente nuovo coraggio al giovane, tormentato da presentimenti di morte.

Ma è ormai tempo di lasciare a lui la parola

 

Dal diario di Karl Raffeiner

20 agosto 1916, domenica
Partenza di buon’ora, alle 6.30, da Calliano passando sotto Castel Beseno, che per un lungo tratto domina come una regina la valle dell’Adige, e vigneti su ripidi pendii. Poi una strada ci ha condotti sopra una magnifica gola. Lassù, in alto, i cavi tesi di una teleferica – un’opera d’arte della tecnica. Ben presto eravamo a Mezzomonte di sotto e Mezzomonte di sopra. Alle 11.30 avevamo raggiunto la nostra meta. Ci siamo tolti gli zaini e distesi – mi sono sdraiato al sole e ho riposato con gioia e con piacere.

 

21 agosto 1916, lunedì
Partenza all’alba, 7.30. Marcia sopra Folgaria – Mezzaselva in direzione di Serrada. Davanti a noi il più splendido dei panorami: da una parte il Bondone, il Cornet, Palon – là dietro le gigantesche pareti rocciose del gruppo del Brenta con la cima Tosa e con la Torre di Brenta i cui molto si parla – e dietro, ricoperto di un manto bianconeve, il possente Carè Alto nel gruppo dell’Adamello. La colata del ghiacciaio di Lares sembrava un gigantesco velo da sposa. Più oltre, verso nord, si scorgeva l’amata Paganella – da Mezzocorona sembrava quasi che si potesse toccare – e lassù, in lontananza, avvolte in una foschia bluastra, le vette delle Alpi Retiche. Siamo arrivati presto a Serrada (9.30). Sosta e riposo. Nel paese abbandonato mi sono infilato svelto in una piccola casetta accogliente e poi subito mi sono precipitato su al passo: che panorama! Ai miei piedi tutta la valle di Terragnolo con i pittoreschi paesi di Piazza e Pùecheri. Dall’altra parte, proprio di fronte a me, il monte Corona aspramente conteso e il Col Santo. A sinistra la nostra meta, il monte Pasubio, ancora più a sinistra il monte Maronia – là avevo già trascorso un inverno intero –; a destra del monte Corona la Zugna Torta, entrambi teatro di accese battaglie. Ai nostri piedi la nostra precedente postazione prima dell’offensiva di maggio. Quanto sangue è costata la conquista di queste montagne? Indicibili sforzi e fatiche

 

26 agosto 1916, sabato 
In mattinata pesante fuoco d’artiglieria, nel pomeriggio fuoco battente. In serata ho parlato con i miei uomini di questo e di quello, di cose tristi accadute durante la guerra. Più tardi un Kaiserjäger è corso a tutta velocità dentro la mia tenda. Avevo già capito che doveva essere successo qualcosa. Sono sceso al secondo avamposto; a 15 passi dal riparo giaceva il caporale Dagu, che sembrava ferito in modo grave. Finalmente è arrivata la sanità. Tuttavia non siamo riusciti a recuperare Dagu. Gli italiani sparavano all’impazzata nel punto in cui avevano visto cadere l’uomo. Non ci si poteva arrischiare nemmeno una volta a sollevare la testa sopra il bordo della trincea, tanto le pallottole italiane sibilavano e fischiavano sopra di noi. Finalmente è arrivata la sospirata oscurità e i sanitari hanno potuto andare a recuperare il povero uomo. L’hanno portato dentro. Il volto cosparso di sangue, le mani fredde come il ghiaccio; era già morto. Un colpo alla tempia gli aveva concesso una morte istantanea e non dolorosa. – Riposi in pace.

 

29 agosto 1916, martedì
Nel pomeriggio l’artiglieria italiana spara all’impazzata. Non si ha mai un po’ di pace per prepararsi un caffè. Le cose andranno anche qui come sono andate un mese fa sul Priafora? Presi da tre lati dal fuoco incrociato dell’artiglieria. Quando osservo le persone mi accorgo sempre che ognuno è consapevole della nostra situazione, sa che saremmo perduti se gli italiani aprissero un fuoco tambureggiante. Si vive dall’oggi al domani. E malgrado ciò ognuno mostra quanto più sangue freddo possibile; nessuno ha paura, nessuno trema; è proprio una strana sensazione il dovere aspettare per così tanto tempo che una scheggia o una pallottola ti spedisca nell’aldilà o nelle retrovie. Io, per quanto mi riguarda, non ci penso affatto, altrimenti impazzirei; ma la stessa cosa fanno gli altri. Tu lo sai, se gli italiani attaccano oggi dopo un opportuno fuoco di preparazione da parte dell’artiglieria, siamo tutti o morti o prigionieri. Non esiste alternativa.

 

24 settembre 1916, domenica
Alba meravigliosa. Aurora passa sopra una carrozza purpurea, seguita da migliaia di lucenti e brillanti nuvolette e infine, raggiante, il sole mattutino. Gli italiani lanciano mine in continuazione.

 

27 settembre 1916, mercoledì
Ce ne stavamo seduti pacificamente nella baracca a chiacchierare: un botto. Non ho sentito più nulla; ho visto solo molti rottami e brandelli volare per aria. Scaffalature, bottiglie, bicchieri, quaderni, sigarette, tutto volava per aria in maniera confusa. Il telo della tenda si è strappato in quattro parti, la finestra è volata fuori, un fumo bollente e nero ha riempito tutta la stanza. Fuori si piangeva. «Sanità», ho sentito gridare. Due giacevano morti nel loro sangue. Le viscere penzolanti. Dappertutto sangue schizzato intorno, abbiamo trasportato in fretta tre feriti fuori di là: uno è morto; era ferito gravemente. L’intestino e lo stomaco erano fuoriusciti. –Vista orribile! Sangue e brandelli di carne, coperte e mantelli insanguinati e bruciati, e sotto i morti, rosso, sangue rosso a fiumi scorreva e fumava – che terribile fumo – vapore di sangue. Non so come sono salito alla caverna; per molto tempo non sono stato in grado di ricordare tutto quell’orrore

 

30 settembre 1916, sabato
Pioggia. In breve però il cielo si è rischiarato. Nessuno di noi resiste a lungo nella baracca. Appena ci si siede si diventa inquieti e nervosi. La strage, orrenda, in breve tempo ci è entrata nelle ossa. Ci si pensa continuamente: l’esplosione, le urla, il fumo. Mi è passata tutta la voglia di scrivere; non riesco a tenere insieme in pensieri…

Dal diario di Josef "Peppi" Raffeiner

4 dicembre 1917, martedì.
Telegramma: Karl è morto. Non ho parole per descrivere il dolore che questa notizia mi ha causato. Karl – mio fratello – il mio fratello, a cui tengo più di ogni altra cosa, è morto, ucciso, ammazzato. Quando ho letto il telegramma, mi è sembrato di soffocare. Non ci potevo quasi credere, era per me assolutamente inconcepibile, troppo orribile. Il mio unico fratello – oh – gli ho voluto così bene.

Karl, Karl.

Ho pregato, ho sperato che tutto potesse essere solo un sogno, un terribile sogno. Ma è vero – ho il telegramma in mano. Mio fratello non c’è più. Volevo andare a casa. Ma non mi hanno lasciato, mi è stato detto che avevo bisogno di un permesso di rientro. Ho discusso, ma non mi hanno dato ascolto. Ho vagato per Vienna, solo, in un dolore senza nome. Solo e senza lacrime ho trascorso la notte  (…)

Ho appreso che Karl sarebbe morto sulla Meletta di Gallio, per un colpo alla testa. Dunque la cosa terribile è vera: Karl non c’è più. Il mio unico fratello, il mio migliore amico, il compagno della mia vita, è morto.  Siamo cresciuti come gemelli …  e poi la guerra, questa disgustosa guerra  oggi per sempre ci ha diviso.

Karl, Karl, adesso non ti posso più abbracciare, non potrò mai più baciare la tua fronte alta e libera, che ha celato più pensieri di chiunque altro dei tuoi amici. Ora è fracassata da una pallottola, e tu sei freddo e morto. Karl, perché mi hai procurato questo dolore, perché sei caduto?

So che tu non ne hai alcuna colpa. Altri ne sono responsabili e so anche chi sono. Anche se costoro riuscissero a sconfiggere l’Italia, la Francia e l’Inghilterra e a dominare il mondo intero, che cosa ne ricaverei io? Io rivoglio mio fratello, Restituitemelo! Anche se mi facessero re di tutta Europa, se mi portassero tutti i tesori del mondo, io sputerei sulla loro vittoria, ottenuta solo con il sangue dei poveri – rivoglio mio fratello – ridatemelo. Il mio unico fratello, Karl…

La versione italiana del libro di Wolfgang Raffeiner “Il vecchio dottore – Una vita nel Tirolo di un tempo” ha una storia particolare,  quasi come quella del suo protagonista.   L’autore l’aveva desiderata fortemente, convinto che, attraverso la storia del suo antenato, molti lettori avrebbero potuto comprendere meglio anche quella della Terra tirolese: una piccola storia – quella di un uomo – che, come spesso accade, riesce a raccontare la “grande storia” – quella universale.

L’incontro fortuito con Luigi Sai, il suo lavoro di traduzione insieme alla figlia Silvia, la lunga ricerca di un editore, l’intervento fondamentale del comune di Brentonico e quello della Fondazione Museo Storico, hanno infine realizzato il suo sogno.

L’edizione in lingua italiana è attualmente esaurita.  Ma “qualsiasi  segnalazione che ne rilanciasse la domanda potrebbe motivare un’eventuale ristampa” ci ha detto Rodolfo Taiani, che ha curato il coordinamento editoriale per conto del Museo Storico.  Non ci resta che “provocare” un altro piccolo miracolo…

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