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Un libro al mese: Il vecchio dottore 1°

Il 10 ottobre 1861, all’Istituto delle Laste di Trento, una giovane donna sui vent’anni dava alla luce un bambino: inizia così la vicenda di Josef Anton Raffeiner, il vecchio dottore, che l’autore del libro rievoca attraverso la documentazione rinvenuta in famiglia. Un viaggio iniziato a Trento, proseguito a Brentonico e poi conclusosi a Petersberg, fra Aldein e Deutschnofen, dove il protagonista esercitò come medico condotto. Un itinerario attraverso la storia del Tirolo da metà Ottocento alla fine della Prima guerra mondiale, quando i vecchi equilibri si dissolsero e nulla fu più come prima.

Su un colle nei pressi della città di Trento, a circa un chilometro in linea d’aria dal castello del Buonconsiglio verso levante, si trova il convento e santuario mariano Alle Laste, che nel XIX secolo era sede del brefotrofio provinciale del Tirolo.

Il 10 ottobre del 1861, nella terza classe di questo istituto, una giovane donna sui vent’anni dava alla luce un bambino. Poiché, in base alle disposizioni allora vigenti in Austria, «alle infelici donne diventate madri al di fuori del matrimonio non doveva essere strappato il segreto della loro vera identità», gli incaricati della registrazione delle nascite erano obbligati «ad astenersi dalla ricerca del vero nome della madre e a iscrivere nei registri di nascita il nome da lei dichiarato con l’aggiunta della sola parola ‹presunto›; soltanto su esplicita richiesta della madre del bambino [si poteva] documentare la veridicità del nome». La giovane donna, chiaramente al corrente di questa disposizione, aveva fatto iscrivere nel registro delle nascite: «Nome presunto della madre: Maria Raffeiner».

Il giorno successivo alla nascita, il bambino veniva battezzato con il nome di Josef Anton. Nel registro dei battezzati non vi sono informazioni né sul padre né sulla professione della madre, e il bimbo è registrato come figlio illegittimo di Maria Raffeiner.

Poco più di un mese prima (il 4 settembre 1861), anche nel paese di Brentonico – situato in una bella zona di mezza montagna ai confini meridionali del Tirolo sulla destra dell’Adige – un’altra donna era giunta alla difficile ora del parto. Il suo nome era Rosa e aveva 28 anni: sposata con il calzolaio Andrea Schelfi, era l’ostetrica del luogo. Al momento della nascita, però, con grande dolore dei genitori, il bambino morì. Formatasi come ostetrica Alle Laste, la signora Rosa era rimasta sempre in contatto con l’Istituto. Fu così che, a pochi giorni dalla sua venuta al mondo, Josef Anton Raffeiner fu affidato dal brefotrofio alle cure di Rosa Schelfi.  Rosa nutrì al seno il bambino e ben presto provò per lui un grande affetto, come fosse figlio suo  (…)

Nell’autunno del 1867 il bambino iniziò a frequentare la scuola elementare di Brentonico. La qualità dell’istruzione impartita nelle scuole elementari della vecchia Austria era molto buona: ai bambini si insegnava in maniera approfondita a scrivere, leggere e far di conto. Le lettere di quel tempo, scritte anche da semplici contadini, colpiscono per la loro bella calligrafia, ma anche la correttezza dello stile e la forma sono ineccepibili.  (…)

Venne l’inverno e poi di nuovo la primavera: fu allora che sulla famiglia Schelfi si abbatté la sventura; il 22 maggio del 1868 moriva Andrea, il padre adottivo. Il bimbo seguì la bara al fianco della mamma fino alla sepoltura: per la prima volta nella sua vita, la morte lo separava da una persona amata.

L’anno seguente mamma Rosa si risposò con Sperandio Passerini, un agricoltore e commerciante di bestiame, che aveva perso la prima moglie ed era rimasto solo con due bambini piccoli, Giovanni di sei anni ed Ettore di quattro. La famiglia ora si era fatta più numerosa e Josef, da tutti chiamato Beppo, era diventato il più grande dei bambini. Ora toccava a lui sbrigare alcuni lavori di casa, come rifornire di legna e acqua la cucina, parare le bestie al pascolo e nella stalla (…)

 

 

In agosto, infine, gli arrivò l’invito a presentarsi Alle Laste; quello che aveva intuito dalle allusioni dei suoi compagni di scuola era dunque vero: egli era un trovatello e mamma Rosa solo la sua madre adottiva (…) Ma non sarebbe rimasto a Trento, la sua meta finale era la sede principale a Innsbruck. Ebbe così inizio il suo viaggio sulla ferrovia da poco costruita e, passando per Bolzano e Bressanone, arrivò infine nella città tirolese. A prendersi cura del bambino nel convento fu una suora che gli fece subito una buona impressione e dalla quale si sentiva protetto. Il suo nome era suor Amalia  (…) Dotata di un’ottima istruzione, suor Amalia conversava con il bambino in italiano. Beppo l’amava e l’adorava, forse conservando nel cuore la speranza che suor Amalia avrebbe un giorno potuto aiutarlo a risolvere il mistero dell’identità della madre. Presumibilmente la suora, su incarico della madre o del padre di Beppo, si era assunta l’impegno di prendersi cura di lui. Non risulta che il bambino abbia mai fatto domande su suo padre: pare verosimile che egli avesse appreso l’identità del padre già molto presto (…)

Nel frattempo il ragazzo aveva incominciato a frequentare l’ultima classe delle elementari a Bolzano e abitava nella Rauschertorgasse, in una casa che in seguito sarebbe stata abbattuta per far posto alla chiesa del Sacro Cuore (…) Terminate le scuole elementari, Josef l’autunno seguente incominciò a frequentare il ginnasio dei Francescani  (…)  Aveva ormai ultimato cinque corsi ed era l’autunno 1877. Il nostro studente lasciò quindi Bolzano e iniziò il sesto corso presso i padri francescani di Hall. All’inizio dell’estate 1880 ottenne la maturità e poco dopo cominciò a frequentare la facoltà di medicina dell’Università di Innsbruck

Il giovane studente continuava a chiedere con insistenza a suor Amalia di sua madre: era convinto che la donna sapesse qualcosa. Quest’ultima, tuttavia, lo pregava di rinunciare a tutte le indagini: era figlio di buona gente, cattolica e tedesca, e tanto gli doveva bastare. Risulta un po’ strano che l’8 dicembre 1880 il Podestà di Trento chiedesse a Innsbruck informazioni sulla sorte di Josef Anton Raffeiner  (…)

Durante gli studi di medicina Josef Anton ebbe una relazione con una ragazza di Hötting di nome Maria Streli, che a seguito di questa relazione, rimase incinta ed ebbe un figlio che venne battezzato con il nome di Josef. Ciononostante, e malgrado la paternità, egli rifiutò sempre di sposarla (…)

Gli studi volgevano ormai al termine ed egli ottenne infine il suo diploma di laurea. Il diploma autorizzava Josef Anton a esercitare la professione come medico di medicina generale, di chirurgia, oculistica e ginecologia.

 

 

A questo punto del racconto devo rivelare al lettore che Josef Anton era mio nonno paterno. Quando io nacqui, egli era ormai sepolto da cinque anni nel camposanto di Petersberg. La tomba che condivide con i due figli Karl e Josef si trova sul muro di fronte all’entrata principale della chiesa ai piedi della grande croce di legno, sotto la mano destra del crocifisso.

Nonostante io abbia conosciuto il nonno solo attraverso racconti e descrizioni, la sua vita mi ha sempre dato da riflettere fin da quando ero giovane. Durante la mia giovinezza, trascorsa in gran parte nei paesi di Petersberg e Aldein, il ricordo del «vecchio dottore», in particolare tra le persone più anziane, era ancora molto vivo.  Il ritratto che emergeva da queste testimonianze era quello di un uomo che esercitava la sua professione di medico non per desiderio di guadagno, ma soprattutto per passione e per amore dell’uomo. Era solito manifestare liberamente la sua opinione e vestiva in maniera informale, senza darsene molta cura, quasi a sottolineare che il valore di una persona non dipendeva dal vestito. Detestava la vanità.

La versione italiana del libro di Wolfgang Raffeiner “Il vecchio dottore – Una vita nel Tirolo di un tempo” ha una storia particolare,  quasi come quella del suo protagonista.   L’autore l’aveva desiderata fortemente, convinto che, attraverso la storia del suo antenato, molti lettori avrebbero potuto comprendere meglio anche quella della Terra tirolese: una piccola storia – quella di un uomo – che, come spesso accade, riesce a raccontare la “grande storia” – quella universale.

L’incontro fortuito con Luigi Sai, il suo lavoro di traduzione insieme alla figlia Silvia, la lunga ricerca di un editore, l’intervento fondamentale del comune di Brentonico e quello della Fondazione Museo Storico, hanno infine realizzato il suo sogno.

L’edizione in lingua italiana è attualmente esaurita.  Ma “qualsiasi  segnalazione che ne rilanciasse la domanda potrebbe motivare un’eventuale ristampa” ci ha detto Rodolfo Taiani, che ha curato il coordinamento editoriale per conto del Museo Storico.  Non ci resta che “provocare” un altro piccolo miracolo…

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