Heimat, una storia – Ore 6.30
Quando aprì la porta della stalla fu immediatamente avvolto dall’odore del letame e dal tepore caldo del fiato delle sue ultime 2 vacche, quelle che gli erano rimaste delle sei dei tempi andati, quando il maso Pomini era carico al massimo: sei vacche, un maiale, qualche pecora e qualche capra, sino a metà degli anni sessanta, prima che le sue quattro figlie si sposassero più per scappare da quella condizione eterna ed immutabile che per vero amore, e abbandonassero definitivamente la valle, per scappar giù, vicino alla città, lontano dal maso, dal lavoro dei campi, e dalla maledizione di quella durissima vita di montagna.
In fondo, come dar loro torto? Una vita a base di polenta e latte, polenta funghi e latte, castagne e latte, insalata e latte a seconda dell’avvicendarsi delle stagioni, qualche uovo, un pezzo di formaggio e la luganega da dividere in sei e che doveva bastare per una settimana, tutto qui, e poi l’insalata condita col burro fuso, insomma tutto ciò che produceva il maso.
Il burro ed il formaggio si vendevano pure al mercato di Pergine, giusto per poter acquistare il granoturco della polenta e l’orzo per il caffè, tutto qui, nient’altro, tutto doveva essere prodotto tra il maso Pomini a quota ottocento e la baita della Bolpis sotto alla Bassa della Panarotta, ove la famiglia si trasferiva per l’alpeggio estivo. Al massimo col ricavato della vendita di un vitello, si poteva metter da parte qualcosa, per una miglioria al maso o per una bestia in più, poi stop! Si risparmiava per l’emergenza, per l’imprevisto, per la sventura sempre in agguato.
Insomma, polenta e fame, questa era la montagna che loro conoscevano da sempre, prima degli aiuti dalla Provincia Autonoma, prima della coltivazione dei piccoli frutti che ora dà da mangiare a tanti in valle, prima della moda degli agriturismi… insomma quando il mondo finiva al dòs del Cius e si entrava nella valle, ove cambiavano le architetture dei masi, la parlata della gente e le facce delle persone, come catapultati più di cent’anni indietro e cento chilometri più a nord.
I mòcheni fuori dalla loro valle li riconoscevi subito: a Pergine stavano sempre all’Alba (l’osteria ove si mediavano i contratti o si trovava un passaggio per la valle) sempre in compagnia di un bicchiere di Schiava o di Teroldego (e spesso non era ne’ il primo ne’ l’ultimo), a volte con le carte napoletane della Dal Negro in mano, a giocare interminabili partite di tresette, briscola e, raramente, scopa, guardati a vista e scherniti dai perginesi perchè tamocchi, quindi todeschi, con quella parlata dura e incomprensibile, che nulla ha a che fare col dialetto trentino, piena di machen, machen, machen (fare, fare, fare) da cui il soprannome dispregiativo mòchen, per i trentini, mòcheni per gli italiani.
Cappello sempre in testa, sole pioggia all’aperto o anche al chiuso, sempre il cappello verde o nero; i pastori ed i cacciatori poi li riconoscevi per il cappello tirolese, i più smaliziati con lo spazzolino di barba di camoscio a ornarne il fianco, ma questa era gente che aveva viaggiato, che era stata dai todeschi, chi a Bolzano, chi fino ad Innsbruck, la loro vera capitale e chi da krumer (da cròmero) addirittura aveva fatto il ziro, spingendosi nelle valli del Tirolo, in Stiria, in Boemia, in Moravia.
Le loro donne poi, sempre col vestito lungo (la vesta), il grembiule blu (turchino) per preservare il vestito che doveva durare una vita, e l’immancabile fazzoletto (il fazzòl) che celava i capelli mai tagliati dalla gioventù, sempre legati in una lunghissima treccia che veniva avvolta a spira sopra il capo, gli orecchini d’oro e la croce bene in vista.
Le donne, no, quelle non le incontravi all’Alba, ma al mercato di Pergine, per vendere il loro burro e soprattutto i funghi di cui la valle è ricchissima, al punto che era ed è flagellata dai fungaioli veneti che pur di tornare a casa con qualcosa, si diceva scherzosamente portassero via “pure le boaze”.
Le donne quindi fuori della valle le trovavi al massimo solo a Pergine, al mercato e poi al cimitero, o meglio, “ai zimiteri” (plurale), ove v’era sempre la tomba di un congiunto o di un’amica che aveva scelto la vita al di fuori della valle.
In ogni caso i mòcheni erano una cosa a sé rispetto al resto dei trentini, più simili ai sudtirolesi di cui condividevano l’animo, la fedeltà all’Austria ed alla sua memoria, l’insediamento nei masi sparsi e parte della lingua, ed infatti il Bepi (lui si chiamava Joseph Hofer, ma tutti lo chiamavano “il Bepi”) una volta era stato nella Val Sarentina, sopra a Bolzano, a trovare dei lontani parenti, quando all’alba delle Opzioni, stava tornando verso casa dopo un autunno ed un inverno passati a lavorare in Germania, nel Reich, ma questa è una storia che va ben raccontata …
Per chi si fosse “perso” qualche pezzetto di questa storia, ecco i link alle “puntate” precedenti: